Il meglio di ‘Brescia si racconta’: “L’incontro” di Silvia Faini
“L’incontro” di Silvia Faini, che pubblichiamo in maniera integrale per gentile concessione dell’autrice, è uno dei racconti finalisti della 1° edizione del concorso per racconti brevi “Brescia si racconta“. Il racconto fa parte dell’antologia omonima, curata da Brescia si legge ed edita da GAM Editore: una raccolta di venti storie che offrono sguardi inediti sulla provincia di Brescia, selezionate tra quasi duecento partecipanti. Le prime dieci classificate verranno pubblicate, una al mese, in una sezione dedicata del nostro sito.
Puoi acquistare l’antologia “Brescia si racconta” (GAM, 2025) presso la tua libreria di fiducia o sul sito dell’editore
L’INCONTRO
di Silvia Faini
Quando, il 12 novembre, parcheggio la macchina a Cecino di Vobarno, il freddo più che mordere azzanna. Le poche automobili presenti – forse dalla sera precedente – sono ricoperte da uno spesso strato di brina che le rende simili a grossi giocattoli rivestiti di zucchero.
Mentre mi levo le scarpe e indosso gli scarponi, si avvicinano due cani: un border collie dagli occhi nocciola e un bassotto petulante che non lascia in pace l’amico, mordicchiandogli la coda che l’altro agita languidamente per festeggiare il mio arrivo, che probabilmente gli sembra una gradevole distrazione. Quando prendo zaino e bastoncini i due si allontanano e pare quasi che confabulino fra loro per decidere se, così armata, sono pericolosa o se si possono fidare di me.
Vorrei fotografarli in quell’atteggiamento complice, ma il bassotto si allontana, annusa un ciuffo d’erba e marca il territorio. Allora mi metto in cammino e imbocco la mulattiera che, in un paio d’ore di salita, mi porterà a Campei de Sima. Il border collie mi raggiunge, mi affianca, corre avanti e mi aspetta: probabilmente, con il suo istinto da guardiano del gregge, ha deciso che oggi sono una pecora da custodire. Il bassotto segue i nostri passi per un tratto, poi, quando la pendenza della stradicciola si fa più significativa, decide di tornare verso casa. Io proseguo nel freddo che non cede, ammirando i ricami di galaverna sui rami dei noccioli, dei frassini, dei carpini. Alla mia destra, oltre la forra, un gruppo di pioppi porta ancora, sulla sommità della chioma, le ultime foglie ingiallite che ravvivano il pendio scuro. Cerco il sole, ma è ancora nascosto oltre le creste del Forametto e dello Spino. Forse è il primo giorno di gelo così intenso, mi dico notando qua e là gli ultimi ciclamini (con stupore, ne conterò ventidue prima della fine del percorso) e un paio di pervinche fuori stagione: mi conforta sapere che al ritorno – nonostante il calendario e il freddo deciso rimarchino che è ormai autunno inoltrato – probabilmente qui ci sarà qualche raggio di sole.
Alla cascata dell’Acquaseta il border collie si ferma, beve, poi solleva il muso verso l’alto e, muovendo il grosso naso umido, tasta l’aria. Anch’io provo a cogliere quegli odori che lo stuzzicano tanto, ma il mio scadente olfatto umano non riconosce nulla. Il silenzio è totale, non fosse per il gorgoglio sommesso dell’acqua: non si sentono canti di uccelli o stridio di rapaci e neppure fruscio di ramoscelli mossi dal vento.
Dopo un paio di fotografie riprendo il cammino, ma il mio silenzioso compagno non mi segue: mi guarda, immobile, le orecchie ritte e il naso fremente.
«Ciao!» gli butto lì, giusto per sentire almeno il suono della mia voce.
Muove piano la coda ma non si sposta e, quando la mulattiera svolta, lo perdo di vista.
Quando infine raggiungo Campei de Sima, il rifugio, gli enormi faggi alle sue spalle e la chiesetta che si staglia sul poggio sono inondati da un timido sole, così piacevole che mi siedo su una delle grosse panche e me ne godo a lungo il tepore sbocconcellando un panino ma tenendo d’occhio la foschia che, poco alla volta, vela la cima del Pracalvis e si muove pigramente nella mia direzione.
Mi rimetto lo zaino in spalla e scendo rapida: non mi piace la nebbia che mi fa sentire smarrita anche quando il percorso è chiaro ed evidente come qui. Non bado più ai ciclamini e alle pervinche che ho visto salendo, ma solo ai punti più viscidi della mulattiera. Quando devo fermarmi per allacciare uno scarpone, una sgradevole sensazione mi costringe a voltarmi: ho l’impressione che qualcuno mi stia osservando. La nebbia, ora più rada ora più compatta, sembra strisciare fra gli alberi e gli arbusti dando al paesaggio un aspetto sinistramente fiabesco.
Un’ombra più densa, un movimento appena percepibile a un centinaio di metri da me attirano il mio sguardo verso una macchia di carpini e… ora lo scorgo, alto, massiccio, scuro: è un orso.
Con estrema lentezza finisco di allacciare lo scarpone, piano piano mi raddrizzo e allungo la mano verso i bastoncini. So bene cosa devo fare, l’ho sentito e l’ho letto mille volte: so che non devo gridare, non devo correre, non devo frappormi fra lui o lei e gli eventuali piccoli. Dovrei indietreggiare lentamente senza voltargli le spalle, ma come posso retrocedere su questa forestale così scoscesa?
E io – proprio io che da anni frequento i luoghi in cui l’orso è stato segnalato, perché vorrei vederlo, vorrei fotografarlo, vorrei provare l’emozione dell’incontro col selvatico – in un istante vengo colta da un terrore primordiale, il terrore dell’uomo delle caverne davanti all’inaspettata presenza della fiera, che però – mi dico, ancora incredula – qui non dovrebbe essere di casa, soprattutto ora che è tempo di letargo. Senza distogliere lo sguardo, muovo piano un piede all’indietro, sento il terreno viscido che non aiuta il passo, mi appoggio a un giovane tronco che freme e guardo l’orso che, ritto sulle zampe posteriori, saggia l’aria e decide cosa fare. Dopo un istante di immobilità riappoggia le possenti zampe a terra e si muove nella mia direzione.
“No, ti prego, no, no, no” mormoro col cuore in tumulto.
Provo ancora un passo all’indietro, ma il terreno è scivoloso, infido, bagnato dall’umidità che la foschia ha portato con sé. Potrei forse infilarmi tra gli arbusti, ma di certo una sua zampata lacererebbe in fretta un misero riparo di rami. E allora, mentre lo vedo caracollare verso di me, mi metto carponi, mi rannicchio il più possibile con la testa fra le braccia e, tremando, tiro lo zaino a proteggere nuca e capo. Capirà che non sono una minaccia? Avvertirà l’odore della mia paura?
Sento il suo afrore vicino, vicinissimo.
Sento il suo verso, una specie di brontolio sordo, di gola.
Sento un peso sulla schiena e aspetto la zampata. Ma la zampata non arriva e forse quel peso è il muso che mi perlustra da vicino, troppo da vicino: per lui l’incarto vuoto del panino manda di certo un profumo allettante. La sua ispezione sui miei vestiti, sullo zaino, sugli scarponi dura pochi istanti, che sono per me un’eternità. Sento infine il suo passo allontanarsi, il brontolio affievolirsi e l’odore pungente svanire poco a poco. Ma non mi muovo. Aspetto. Sono una statua di ghiaccio con la testa in fiamme. Conto fino a cento, poi ancora a cento e ancora e ancora prima di decidermi a sollevare il viso e a scrutare, nella foschia che si apre e si richiude, il bosco e la stradicciola per sincerarmi che lui non ci sia più. Aguzzo la vista e l’udito: non sento e non vedo nulla.
Allora mi metto seduta, esausta come dopo una corsa, respiro a fondo e infine, vacillante e incredula, mi rialzo: mi ha sfiorata, mi ha annusata e non mi ha fatto niente!
Scendo lentamente, girandomi a ogni minimo fruscio, tremando per ogni foglia secca che cade al suolo, sobbalzando per un timido gorgoglio di acqua. Quando raggiungo il parcheggio, il bassotto e il border collie mi scorgono da lontano e si muovono nella mia direzione scodinzolando, ma all’improvviso si bloccano, ringhiano verso di me, abbaiano, poi mi assediano mostrando i canini e si ritraggono solo quando io, allarmata, sollevo in alto un bastoncino.
Un uomo dai capelli candidi si affaccia a una finestra e, vedendomi, apre l’uscio e richiama con un fischio i cani, che vanno verso di lui e si acquietano. Poi mi fa cenno di avvicinarmi e mi scruta: non so cosa legga sul mio viso arrossato per il freddo e l’emozione, non so se scopra nei miei occhi il residuo di timore che ancora non mi abbandona. Fa rientrare i cani nel recinto, si chiude la porta alle spalle e mi si accosta guardandosi attorno con circospezione, anche se in questo pomeriggio brumoso nel piccolo parcheggio non c’è anima viva.
«L’hai visto?» mi chiede in un sussurro.
Fingo di non capire: «Chi?» domando.
«Quello che ti ha spaventata tanto! L’hai visto, vero? Ti si è avvicinato?»
«Sì» sospiro.
«I cani hanno sentito il suo odore addosso a te. Ne hanno paura, sai? Una paura antica, remota, anche se non lo conoscono… Lui quassù non ha mai fatto danni, non è mai sceso fino al paese. Arriva solo in tardo autunno, quando sta per andare in letargo: è il terzo anno che percorre i boschi del Prato della Noce. Tu vieni da là?»
Annuisco e mi rilasso, finalmente mi rilasso: sento che il collo e le spalle contratti si sciolgono.
«Entra in casa, ti faccio un caffè» mi dice spalancando la porta.
Seduta nella piccola cucina, mi sento invadere dalla stanchezza e da una profonda, rabbiosa delusione: avrei potuto restare calma, avrei potuto fotografarlo, avrei potuto godermi l’incontro e invece…
«Lei l’ha visto?» gli chiedo sorseggiando il caffè.
«No, mai. Ma l’anno scorso e quello precedente ne ho trovato le tracce su nella valle: escrementi, impronte, piante con segni di scorticamento.»
«Come sa che è sempre lo stesso?»
«Perché sono vecchio: ho tagliato alberi in Svizzera, in Austria, in Slovenia e in quei boschi ho imparato a riconoscere le loro tracce, a distinguere il peso di un maschio da quello di una femmina”.
«E questo è..?»
«Un maschio giovane, senza una compagna. Forse si è allontanato dalla sua zona abituale sperando di trovare una morosa – ride sommessamente – gli lascio delle mele talvolta, quando le gambe mi permettono di salire più in alto. Così non scende a cercare pecore o polli.»
«Non ha mai fatto danni… – mormoro – quindi…»
«Quindi tu e io ce ne stiamo zitti, per evitare che qualche testa calda si prenda il gusto di ucciderlo. Lui si troverà un riparo per questi mesi freddi e quando arriverà la primavera se ne tornerà verso la Valvestino o il Trentino. Arriva da là, secondo me.»
Prende una scatola di biscotti, la apre e me li offre: «Mangia qualcosa, che oggi è un giorno di festa. Non ti capiterà mai più un incontro simile. Io l’ho sognato per anni». Sorride e guarda, oltre i vetri, la foschia che si apre e permette a qualche raggio di sole di insinuarsi fra le abitazioni.
«Grazie di tutto – dico alzandomi – adesso è ora che me ne torni a casa.»
Mi accompagna alla porta, mi batte piano una mano sul braccio e, strizzandomi un occhio in segno d’intesa, sussurra: «Torna a trovarmi, però, mi raccomando, acqua in bocca!» Sono tornata lassù altre volte, per salutare il vecchio Alfio e per lasciare delle mele lungo il percorso, ma aveva ragione lui: un incontro simile non mi è più capitato.
SILVIA FAINI ha lavorato come insegnante, traduttrice, redattrice. Ama leggere, camminare per monti, cucinare e scrivere; ha partecipato a diversi concorsi letterari, ha pubblicato e auto-pubblicato raccolte di racconti e romanzi sia per adulti che per bambini.
Puoi trovare questo e altri 19 racconti scelti nell’antologia “Brescia si racconta”, a cura di Brescia si legge, edita da GAM Edizioni (2025). Richiedila nella tua libreria di fiducia (ISBN: 9791281717374) o acquistala online sul sito dell’editore.

Venti racconti potenti e sorprendenti, selezionati tra i quasi duecento iscritti alla prima edizione del concorso “Brescia si racconta”, per altrettanti punti di vista inediti sulla nostra provincia. Tra confessioni intime che aprono squarci imprevisti e sguardi nuovi sui grandi traumi collettivi, tra visioni oniriche e frammenti di vite che oscillano tra la cronaca e la leggenda, venti storie a chilometro zero, vive e ruspanti, che usano il potere della letteratura per andare oltre gli stereotipi e per raccontare senza troppe sovrastrutture la nostra provincia e la comunità che la abita.
Racconti di (ordine alfabetico): Fabio Ballini, Maddalena Bazzani, Marta Bonisoli, Sveva Castrocaro, Maria Cerutti, Manuela Corsino, Ombretta Costanzo, Domenico Di Natale, Silvia Faini, Emanuele Galesi, Matteo Gilberti, Roberto Gregorio, Alessia Maghella, Daniela Martinotti, Stefano Morzenti, Stefano Novara, Michele Piccardi, Marcello Rizza, Giovanni Francesco Scalvini, Sara Tomasoni.
A cura di Brescia si legge Aps, progetto collettivo e aperto di promozione culturale dedicato ai libri che raccontano Brescia e la sua provincia e piattaforma al servizio della scena letteraria locale.


