Intervista allo scrittore bresciano Nivangio Siovara, visionario portavoce del lato oscuro
Intervista a cura di Heiko H. Caimi per Inkroci (versione completa e originale qui)
Pubblichiamo, ringraziando per la disponibilità gli amici di Inkroci – Rivista di letteratura alcuni estratti da una lunga intervista fatta all’autore bresciano Nivangio Siovara in cui si parla, tra le altre cose, di “In albis” (2018) e di “Di vento. Tre storie di resurrezione metropolitana” (Prospero Editore, 2019), ultima opera dell’autore bresciano che scrive sotto questo pseudonimo. Le opere dell’autore possono essere acquistate (anche) qui.
Nivangio Siovara è un autore insolito nell’attuale panorama letterario italiano: si aggira nei meandri del fantastico più puro, con una continua produzione di oscuri scritti, come dice la sua biografia. Finora ha pubblicato due romanzi (L’onestà del Moloch, 2017, e In Albis, 2018) e una raccolta (Di vento. Tre storie di resurrezione metropolitana, 2019), tutti con Prospero Editore, più una lunga lista di racconti in antologie e sul web.
Riferendoci alla tua biografia in quarta di copertina, pare che Nivangio Siovara non esista: perché non esiste?
Non esiste perché è una parte di me che tendo a non presentare: è quella che si chiude in casa, scrive e pensa. È la mia parte critica e vagamente rabbiosa, sicuramente la più oscura e asociale.
Quindi fondamentalmente fai da portavoce a questo lato oscuro?
Sicuramente sì, e lavoro per mantenerlo. Sono il suo mecenate, diciamo!
Hai esordito nel 2017 con L’onestà del Moloch che, a proposito di scrittori che non esistono, ha come sottotitolo: Ovvero della beata nientitudine. Sulla quarta di copertina di questo romanzo è riportata una frase: Essere in un posto che non è quello che sembra. Dicono: se n’è andato. Ma uno, se va, da qualche parte arriva. È quindi una questione di frontiere?
Esatto: L’onestà del Moloch è interamente ambientato in una frontiera, una frontiera esistenziale mai chiarita. Può essere quella dell’incoscienza o della malattia, ma anche del post-mortem, quindi di un nulla che si riempie di vissuto; un vissuto che si riesce a ricostruire
(…)
Ma passiamo al tuo secondo romanzo, In albis, pubblicato nel 2018.
“In albis” è la domenica che si festeggia la settimana dopo Pasqua, in cui si usava vestirsi di bianco e c’era una sorta di cerimonia. È la giornata in cui la famiglia tradizionalmente si ritrova a mangiare fuori, è un momento di libertà.
Qui scopriamo che la verità è quella cosa che quando la vedi muore, tant’è che in questo romanzo scardini uno dei pilastri della nostra società, cioè proprio la famiglia. Basta un elemento che tolga equilibrio al nucleo familiare, che questo collassa e si scatena l’inferno. Nel senso che in queste pagine viviamo tutto il veleno dell’essere adulti, del perbenismo e dell’educativamente corretto, e diventa chiaro quanti danni facciamo con l’educativamente corretto. È un veleno secreto dal demone della famiglia, perché l’abbiamo mitizzata, questa istituzione, l’abbiamo tradizionalizzata, ipocritizzata a tal punto che non sappiamo più che cosa significhi. Però abbiamo questa vaga idea cui appigliarci e cerchiamo di resistere con tutte le nostre forze per preservarla, senza accorgerci che, nel momento in cui dobbiamo fare tutto questo sforzo per tenerla unita, abbiamo già piantato i semi della sua distruzione.
La morte viene a scardinare tutto questo, ed è inevitabile quando sei abituato a costruire tutta la tua vita sulla menzogna e sulla falsità, sul dovere, senza scegliere nulla. I protagonisti procedono su binari imposti, quindi la morte scardina tutto perché è irragionevole, senza senso; perché, per esempio, i bambini non devono sapere che è morto il gatto – è l’elemento che toglierà equilibrio alla famiglia del romanzo –, e allora si comincia a costruire un altro mondo di menzogne, compresa quella, inventata dalla madre per non traumatizzare i figli, che questo gatto se n’è andato in un’accademia felina da dove scrive ai piccoli. Si arriverà a una soluzione macabra.
La premessa è che insieme al padre, all’inizio del romanzo, entra un uomo vestito di bianco che fa la parte dell’angelo ma anche dell’uomo nero: è invisibile proprio perché i protagonisti vedono le cose solo se montate su castelli di menzogne, non vedono la verità. Solo il bambino la intuisce, e il gatto che troverà la morte. Di fronte a loro, che spesso si definiscono come eroi borghesi, l’uomo vestito di bianco è l’eroe di una volta, che li vuole liberare: porta la verità, ed essa non può essere positiva proprio perché hanno costruito la loro vita sul falso e sulla menzogna.
Infatti il loro mondo crolla clamorosamente e i protagonisti incominciano a scambiarsi menzogne su menzogne, sia con l’alibi di proteggere i bambini, sia per proteggere se stessi.
Anche perché la morte del gatto costringe la madre a perdere il ruolo tradizionale femminile all’interno della famiglia, imponendo al marito di ricoprirlo. Questo crea un altro dissidio, i ruoli si invertono e non funziona proprio nulla. Lei torna a sentire quello che provava una volta, quando viveva al di fuori di questo sistema, e il contrasto è troppo forte: crea inevitabilmente una rottura, fino a vere e proprie follie.
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In Di Vento. Tre storie di resurrezione metropolitana, tre racconti lunghi, le storie non finiscono male, anzi o finiscono bene o restano in una sorta di sospensione. C’è una resurrezione, o comunque un ritrovare ciò che più ci appartiene.
C’è anche un ritrovare, c’è un richiamo. In uno dei racconti c’è un finale molto spiazzante, secondo me.
Un finale semi-aperto, però il protagonista ci si trova benissimo.
Sì. Premetto che questo racconto parla di un balcone pieno di fiori bello come nessun altro al mondo. C’è un momento in cui la proprietaria muore e nessuno può più curarlo, ed è una persona molto strana, questa donna. È strana perché quel balcone è fin troppo bello, e secondo i suoi vicini ci deve essere sicuramente dietro qualcosa. C’è un unico vicino che collabora con lei e che vorrebbe fare qualcosa per quel balcone.
Ma ci sono delle leggi che lo impediscono, perché nel mondo in cui vivono i protagonisti ci sono divieti precisi.
Qui addirittura è vietato invadere la proprietà privata in uno spazio aereo, per esempio infilare la mano dentro a un finestrino aperto di una macchina senza prendere nulla, quindi nessuno può fare niente per le piante, ma il protagonista se ne frega. Quello che conta qui è capire che quelle piante erano così belle perché c’era qualcuno che le amava e si curava di loro, questa è la magia. Per questo il finale è spiazzante: l’amore e la cura sono la vera rivoluzione.
Il secondo racconto si intitola “H” ed è a cavallo tra Pirandello e Kafka. Le considerazioni del protagonista sono molto pirandelliane, c’è anche una comicità tipicamente pirandelliana, quel genere di umorismo che non fa sganasciare ma fa ridacchiare intimamente, però non in maniera allegra. È un umorismo che ci mostra le cose che stridono fra di loro. Il nostro protagonista è anche abbastanza paranoico.
Sì, lui è uno che vive su un binario fisso che va dalla casa al lavoro. In cui non fa nulla di diverso dall’andare al lavoro e tornare a casa, una casa che non conosce nemmeno come la casa non conosce lui. I vicini sanno che c’è, ma non lo conoscono.
C’è una donna, che si presume essere sua moglie, della quale il protagonista ad un certo punto non ricorda neppure il nome. Gli prepara i pasti ma nulla più. Quello che a lui piace della vita è il tragitto da casa al lavoro e viceversa, per cui ciò che c’è a casa e al lavoro o non gli piace o non gli interessa. Ad un certo punto questo tragitto viene turbato da una consapevolezza che acquisisce involontariamente: leva lo sguardo e nota una signora che lo sta fissando insistentemente; lui si muove ed è convinto che quello sguardo continui ad essere lì, puntato su di lui, e si chiede da quanto tempo ciò avvenga, cercando una soluzione per ripararsi da quello sguardo.
Il problema è che lui non aveva mai guardato a quella finestra: per un colpo di vento è costretto ad alzare lo sguardo. Lui, che non si è mai interrogato su nulla della sua vita, è costretto a chiedersi che cosa quella donna abbia visto di lui, che cosa quella donna saprà di lui. Quindi è un continuo interrogarsi sulla propria natura che porta ad una vera metamorfosi e, senza dire troppo, egli diventa un vero e proprio animale. Ce lo ritroviamo per la città che continua a vivere come un animale. C’è una mutazione, quindi la sua vita viene completamente stravolta, arriva a fare cose grottesche, pazzesche, solo perché questa donna lo ha osservato.
Sembra una rinascita attraverso una rivincita.
Effettivamente sì, c’è un finale spettacolare dove scopre ciò che è diventato ed è libero di esserlo.
Nell’ultimo racconto, Sopravvento, accade un fatto banale: una donna, tornando a casa, trova una finestra rotta, ma nel suo appartamento non manca nulla, anzi, chiama la polizia e nel frattempo si rende conto che c’è una cosa in più: un block notes su cui non c’è scritto niente. La polizia fa i suoi rilievi, il più alto in grado dice all’altro di riparare la finestra meglio che può e suggerisce alla protagonista di chiamare il vetraio, ma di fatto non è stato rubato nulla. Lei chiede che venga esaminato il block notes, ma i poliziotti non la prendono particolarmente sul serio. Fatto sta che il giorno dopo la finestra viene riparata, ma se la ritroverà di nuovo rotta con un altro taccuino abbandonato.
Continua a chiamare la polizia e ogni giorno parti dell’appartamento vengono distrutte, un giorno dopo l’altro.
Uno dei due poliziotti, quello più basso in grado, si affeziona alla protagonista e cerca di darle ua mano, ma lei, a mano a mano che penetra nell’irrealtà, cerca di evitare di essere aiutata. Tant’è che si chiede a che cosa serva quel taccuino e decide di scriverci una cosa. Da qui inizierà una comunicazione con ciò che troverà nel taccuino di volta in volta. E a mano a mano il suo appartamento si decomporrà, bombardato da quel qualcosa che le lascia il taccuino.
Questa è una forza inintellegibile. È la storia di un rimosso, del riemergere di un rimosso, del suo passato collegato a un’esperienza recente che lo risveglia. È liberatorio perché dietro l’angoscia che c’è nell’animazione di un rimosso c’è il riscatto, almeno caso della protagonista.
È anche questa un storia di resurrezione: alla fine la protagonista dell’ultimo racconto trova forse se stessa, anche se non dove pensava di potersi trovare, o quantomeno trova qualcuno a cui dire Io sono qui.
Trova il modo per uscire. La casa è il simbolo della sua clausura e della sua incapacità di capire ciò che c’è fuori. Per lei il tempo si è fermato lì.
Nei due romanzi abbiamo vicende angoscianti che si risolvono nel peggio, mentre qui leggiamo tre storie che si aprono alla speranza, quindi con un carattere diverso, pur avendo elementi in comune. E anche lo stile cambia, facendosi via via più sciolto e immediato.
Infatti volevo mostrare tre scritture diverse, tre toni diversi. Può darsi che poi si vada perdere l’identificazione con un certo tipo di voce dell’autore.
Hai un’immaginazione sfrenata e spesso apocalittica.
Quando ero piccolo tante persone mi dicevano che avevo una grande fantasia, io non gli credevo perché mi sembravano fantasie banali, allora mi sforzavo e scavavo ulteriormente. Forse con l’esercizio è venuto fuori qualcosa di migliore.
(…)
Perché scrivi? Perché come canale per esprimerti hai scelto la scrittura?
Non lo so. Mi sono sempre piaciuti moltissimo i libri, fin da piccolo. Amavo particolarmente i caratteri stampati, i libri con le “g” stampate nel modo in cui piacevano a me. Poi ho sempre avuto delle voci che insistevano perché raccontassi delle storie, quindi la scrittura è diventato un canale naturale, senza che decidessi di farlo.
Essere uno scrittore che cosa ti ha insegnato?
Mi ha insegnato prima a un confronto con me stesso e poi a cercare di dargli una forma, che è la cosa più difficile. Posso anche avere molte sensazioni dentro di me, ma poi le parole della nostra lingua non rappresentano perfettamente le nostre sensazioni, quindi bisogna costruire dei sistemi, delle strutture che, escludendo delle immagini, permettono di rappresentare ciò che senti.
Bisogna costruire qualcosa attorno a quello che provi per dare un’idea di quello che provi.
I libri di Nivangio Siovara sono disponibili (anche) qui