Non di solo pane, ma anche di salame: tutto sui salumi locali in un libro che stuzzica il palato edito da Fondazione Civiltà Bresciana

Non occorre essere dei buongustai per apprezzare il lavoro di Gianmichele Portieri e Laura Cottarelli “I salumi bresciani. Storia, tecnica, gusto” (Fondazione Civiltà Bresciana, 2022). Dietro a una fettina di salame, infatti, c’è tanta storia, c’è lavoro, ci sono tradizioni e attività economiche.

Il libro racconta tutto, ma proprio tutto il mondo che, oggi come nel passato, ruota attorno all’allevamento del maiale, alla sua macellazione, alla lavorazione delle carni e alla loro degustazione. Tutto ciò con il contributo di dieci autori esperti del settore, tutti maestri assaggiatori diplomati e in molti casi norcini esperti.

Il risultato è un’opera zeppa di curiosità, tale da catturare l’attenzione di qualsiasi lettore, destinata con buona probabilità, a diventare un “classico” della cultura bresciana.

La cosa più curiosa di tutte, paradossalmente, è che i salumi bresciani non esistono. O meglio: Brescia è specializzata nell’allevamento di suini e la produzione di salumi conosce delle punte di eccellenza. Dei 700 salumi tradizionali presenti in Italia, però, neppure uno è bresciano, nonostante la nostra provincia sia la zona con più suini d’Italia. Insomma, i salumi che qui si producono sono tutti copiati dalle province vicine, soprattutto quelle padane ed emiliane.

La lettura del libro smentisce inoltre una serie di idee sul “mondo del maiale” ben radicate nella maggior parte di noi. Ad esempio: l’associazione del maiale all’idea di grasso, di rotondità, di abbondanza è qualcosa di squisitamente moderno. In origine i maiali erano infatti snelli (massimo 70 kg), con zampe lunghe, veloci nella corsa. In più, non avevano il caratteristico grugno, ma un muso appuntito, atto a scavare.

Da ridimensionare anche il mito del maiale come fonte di carne per i contadini: ingrassare un maiale richiedeva circa sette chili di cibo al giorno, ben più, dunque, di quanto poteva essere fornito dagli scarti di cucina e i veri poveri non si potevano permettere di destinare sette chili di scarto alimentare a un maiale (ammesso e non concesso che riuscissero a produrli). Anzi, era comune l’usanza che famiglie, anche agiate, si unissero, a coppie o a gruppi di tre per allevare un maiale. Questo fino alle seconda metà dell’Ottocento, quando l’aumento generalizzato del benessere invertì la tendenza.

Di fatto il ricorso ai suini come fonte alimentare (come spiegato nella prima sezione del libro, interamente dedicata alla storia del porcello) è un’abitudine che viene introdotta in Italia in epoca relativamente tarda, rispetto al consumo di altre carni. I Romani prediligevano il consumo di ovini e fu l’arrivo delle popolazioni barbare, esperte anche nella salatura delle carni suine, e nella fattispecie l’arrivo dei Longobardi, a far conoscere alla nostra penisola l’allevamento nei campi di maiali “da pascolo”. I maiali fornivano anche sugna e lardo per conservare gli alimenti, visto che, come noto, la produzione dell’olio d’oliva collassò con la fine dell’impero romano.

Dobbiamo immaginare che per secoli i ricchi si nutrissero soprattutto di selvaggina, mentre i poveri mangiavano quello che c’era, quello che si trovava, non certo salamine o cappello del prete. Il maiale era il cibo della festa e solo nel Novecento, con gli allevamenti industriali, ha iniziato ad essere accessibile al consumatore su larga scala, come confermano i dati puntigliosamente riportati nella seconda sezione del volume riguardo all’economia del maiale (oramai divenuta attentissima anche alle questioni legate al benessere animale e alla sostenibilità ambientale).

Ma che dire dunque di quanto si produce a Brescia?  Qui vale la pena di dare un assaggio (purtroppo solo metaforico) di alcune delle delizie che la nostra provincia offre. Nulla di originale, dunque, ma comunque e sicuramente squisito.

Ricordiamo, ad esempio, il salame di Pozzolengo , composto al 70% di carne magra e 30% di grasso con ingredienti ben precisi come (oltre al sale e al nitrato di potassio), il pepe, i chiodi di garofano, il vino rosso del territorio, l’aglio messo in infusione nel vino. Si potrebbe poi citare il salame cotto di Quinzano d’Oglio: carni macinate con trafilatrice a grana media, pezzatura finale tra mille e millecinquecento grammi, sapore delicato, aroma dolce ed equilibrato. A Lonato c’è l’Oss de Stomec, piatto tradizionale dei contadini, in cui l’impasto viene realizzato comprimendo lo sterno. A Capriolo c’è la Rèt, dalla macinatura grossolana, con il grasso cubettato, la salvia locale e, ancora una volta, l’ aglio.

Il salame di Montisola è forse il più noto: riconosciuto come Prodotto Agroalimentare tradizionale, ha carni non macinate, ma tagliate a coltello. Fra i suoi ingredienti, oltre al sale e al salnitro, troviamo la noce moscata, la cannella e i chiodi di garofano; l’asciugatura viene fatta in stanze con il camino alimentato con il legno di ulivo, il che conferisce al prodotto un leggero sentore di fumo.

Potremmo ricordare anche la soppressata bresciana o i salami di capra o di pecora (il Violino di capra e il Violino di pecora, la Berna o Sbergna) della Valcamonica. Per non parlare della Rosetta, salume oramai quasi “estinto” perché richiede una lavorazione complessa in cui è necessario disporre di grande manualità e rapidità. Potremmo elencare tante altre specialità, ma lasciamo ai nostri lettori il piacere di andare a farsi una cultura consultando il volume di Civiltà Bresciana, corredato, va detto, di immagini quantomai invitanti.

Insomma, anche nell’ambito della produzione dei salumi, Brescia si rivela una provincia che ha la sua da dire, come testimonia anche la presenza sul territorio di associazioni, fra le altre, come l’Associazione Norcini Bresciani, che si pone l’obiettivo di “promuovere la figura e il mestiere del norcino come elemento di continuità nella tradizione popolare bresciana”. Molto attiva anche l’ONAS, Organizzazione Nazionale Assaggiatori Salumi, nata a Cuneo nel 1999 e approdata a Brescia nel 2000, che organizza corsi annuali di primo, secondo, terzo livello, nonché un corso biennale di “Maestro assaggiatore”.

Ultima curiosità, fra le tante. Quale la bevanda migliore da abbinare a pasto con un buon salame? Se un salame di Montisola per le sue caratteristiche (leggera affumicatura, uso del vino rosso aromatizzato con aglio, bassa salatura) può ben essere abbinato, ad esempio, a un Chiaretto Doc della Valtenesi, con la sua sapidità e acidità media, perché non pensare di accostare a un salume una birra? Dipende, ovviamente, da una serie complessa di combinazioni fra le variabili della grassezza, del salato e della speziatura del salame, in base a un rapporto di contrapposizione e concordanza con la bevanda alcolica. Insomma, anche qui c’è un mondo scoprire.

Buona lettura, dunque, e, soprattutto, buona degustazione!


Titolo: I salumi bresciani. La storia, la tecnica, il gusto
Autore: G. Portieri, L. Cottarelli (a cura di)
Editore: Fondazione Civiltà Bresciana, 2022

Genere: Saggio
Pagine: 199
ISBN: 9788855901338

Silvia Lorenzini

Bresciana, laureata in Lettere Classiche presso l'Università di Pavia. Ha trascorso anni a girovagare fra la Germania e l'Inghilterra per ragioni di studio, di lavoro e di amore. Dal 2005 insegna Italiano e Latino in uno dei licei cittadini. Appassionata di storia locale, adora la montagna, la musica, i libri e non saprebbe vivere se le mancasse anche solo una di queste tre cose.

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