“Babele fu un dono”: alla ricerca delle parole perdute nel nuovo romanzo del medico e scrittore Claudio Cuccia
Letto e recensito da Roberto Bonzi per Brescia si legge
Ebbene, nella città di B., una città ricca, pulita e moderna, il lettore avrà compreso che la gente s’arricchiva in denari e perdeva parole. Questa era l’idea che si era fatta Pino de Angelis, il giovane semiologo che aveva anche intuito quali fossero i margini della manifestazione della malattia.
“Babele fu un dono” di Claudio Cuccia, pag. 45.
Da qualche tempo nella città di B. è in circolo uno strano morbo: le persone utilizzano un numero di parole sempre più esiguo, rinunciando alla complessità e al gusto per le sfumature. Ma cosa succede se il linguaggio s’impoverisce? Quanta ricchezza si perde per ogni parola dimenticata? È il dilemma al centro di “Babele fu un dono”, romanzo di Claudio Cuccia (Scholé, 2023). Una lingua più misera rispecchia una società più grigia, dove lentamente ogni essere umano si autocondanna a un quieto torpore.
Forse, però, l’omologazione che parte dal linguaggio e permea ogni aspetto della vita non è un destino ineluttabile. Ne è convinto Pino, semiologo e “maestro di scienze inutili”. Sarà lui a convincere l’amico Andrea, ingegnere e “studioso di gas”, a unire le forze e cambiare le cose. Per risvegliare gli abitanti di B. dal loro letargo lessical-esistenziale, servirà una mistura di fisica e chimica, insieme alla lucida follia di un gruppo di giovani rivoluzionari.
Claudio Cuccia, già responsabile dell’Unità di Terapia Intensiva Cardiologica degli Spedali Civili di Brescia, è direttore del Dipartimento Cardiovascolare della Fondazione Poliambulanza di Brescia. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni che spaziano dalla narrativa alla saggistica. Dai suoi libri è tratto “Cardio Drama, spettacolo semiserio su un organo quasi perfetto”, opera teatrale a cura di CHRONOS 3. In “Babele fu un dono” infonde la sua passione per la letteratura, riflettendo con ironia sul nostro presente e su quanto il lessico quotidiano possa plasmarlo. Tra citazioni colte e rimandi all’immaginario pop, il romanzo ci ricorda che esiste un modo “antico” di guardare al “nuovo”, perché tecnologia e umanesimo sono facce della stessa medaglia e le parole, soprattutto le più desuete, sono i primi mattoni con cui costruire un futuro migliore.
Una società malata, sempre più muta e ubbidiente
È Socrate a parlare, incoraggia i suoi amici a dire a chi l’ucciderà che ciò che seppelliranno sarà il suo corpo, non le sue parole, i dialoghi, il pensiero. Ecco perché parlare inopportunamente, dirà il filosofo, non solo è stonato per sé, ma infetta le anime con un qualche male. Le parole uniscono e fanno guardare oltre. Per questa ragione va isolato il virus che genera l’inaridirsi del linguaggio, ed è urgente sequenziarlo per produrne l’antidoto e spegnere la pandemia che fa la società prima ubbidiente e poi muta.
“Babele fu un dono” di Claudio Cuccia, pag. 47
“Non si tratta solo di non usarle, certe parole, ma di non comprenderle affatto”, spiega Pino ad Andrea. Dei due è lui il più ansioso di darsi da fare. Intorno a sé vede persone “in preda a una sorta di ipnosi”. Nessuno si rende conto di “aver spento il pensiero, lasciando il cervello al buio”. Per convincere l’amico, Pino ferma i passanti e li interroga sul senso di parole che non comprendono più: frugale, ghiotto, pacato, smargiasso, probo, sacripante, manesco. Gli abitanti di B. preferiscono vocaboli più generici, scialbi ma rassicuranti. La complessità è diventata un fastidio. Eppure, anche se l’esercizio comporta una certa fatica, solo sommando una a una le differenze il mondo può diventare “un luogo felice”.
I protagonisti di “Babele fu un dono” sono i primi a dare il buon esempio. Così a compensare la passione e la petulanza di Pino ci sono l’equilibrio della fidanzata Anna e il senso pratico di Andrea. I tre si muovono in una città “linda” e “ben organizzata”, posta “tra i laghi e le colline”, in cui non è difficile scorgere il profilo di Brescia. E se all’inizio la tentazione è puntare il dito contro la gente, alla fine prevale la ragione: il problema non sono le persone, ma il male che le affligge.
Il piacere delle parole che contaminano i mondi
Lasciamo pure che le lingue mutino nel tempo, anche l’uomo non si stanca di cambiare adattandosi al meglio. Darwin forse scherzava? La molteplicità è un valore, Babele fu un dono, mille furono gli incontri d’amore e di sfida tra le genti: ambasciatori, mercanti, pellegrini e guerrieri si sovrapposero i confini delle lingue e delle culture, facendo poi perdere le tracce della loro contaminazione. Ah, quale meraviglia di contagio!
“Babele fu un dono” di Claudio Cuccia, pag. 91.
“Chi parla male pensa male e vive male”, sentenzia il protagonista di “Palombella rossa”, film del 1989 diretto da Nanni Moretti. È una delle tante citazioni che si colgono nei dialoghi tra Andrea, Pino e Teresa. Nella società di oggi è facile fare indigestione di stimoli. Peccato che la nostra dieta di parole si basi sull’abbondanza più che sulla varietà. Il rischio è che comunicare diventi un esercizio autoreferenziale, in cui ciascuna voce si riduce a megafono di se stessa. Eppure, sembra suggerire “Babele fu un dono”, senza un linguaggio più profondo anche le nostre vite sono destinate a diventare insipide.
Alternando i toni giocosi a quelli più riflessivi, citando Gorgia e Checov ma anche le serie tv, Claudio Cuccia imbastisce una storia a metà tra il racconto allegorico e l’elzeviro, senza mai rinunciare alla giusta dose di autoironia. E se davvero come scriveva Ludwig Wittgenstein è il nostro linguaggio a definire i confini del mondo, allora ogni parola in più è un dono prezioso.
Titolo: Babele fu un dono
Autore: Claudio Cuccia
Editore: Scholé
Anno: 2023
Genere: romanzo
Pagine: 144
ISBN: 9788828405542
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