Il meglio di ‘Brescia si racconta’: “El bùs de l’Angel”, di Maddalena Bazzani


EL BÙS DE L’ANGEL

di Maddalena Bazzani

Giovanna spalancò gli occhi sul buio della gelida stanza da letto, sorrise pensando alla sera prima, i suoi figli avevano onorato l’antica usanza della candelora. La Valsaviore era una valle chiusa, dove anche la strada finiva ai piedi dell’Adamello, tante le tradizioni e le leggende, la gente che ci viveva ci credeva. Ripensò alla sera prima, che birbanti di bimbi aveva? Certo, non era facile inventarsi ogni anno un motivo per farla uscire da casa e poi chiuderla fuori cantando la canzoncina in dialetto bresciano fò zènér eter fabrèr (fuori gennaio e dentro febbraio) come a dire, va’ inverno, ora entra la primavera.

Già, febbraio, il nuovo anno sembrava già vecchio, tanto era sempre uguale a quello prima, nulla cambiava, la stessa miseria di sempre. Giovanna si alzò e passando accanto alla finestra sentì il tintinnio dei vetri tenuti ancorati al legno con dei grossi chiodi. Allungò la mano come a fermare quella vibrazione e incontrò il vetro ricamato di ghiaccio, sospirò sconsolata, un altro giorno da inventare, pensò. Scese le ripide scale di legno attenta a non cadere, non accese la luce, non le serviva, bastava contare gli scalini per sapere che era arrivata. Con fare svelto e abituale accese la stufa in cucina e, mentre il calore si diffondeva per la piccola stanza, si lavò. Nel piccolo catino versò poca acqua e fece in fretta le sue abluzioni ignorando la pelle d’oca che la copriva tutta.

Le sue mani percorsero tutto il corpo soffermandosi sul ventre…

Era già spaventata solo all’idea, figuriamoci se il suo pensiero fosse stato certezza!

Giovanna cercò di fare i conti con calma ben sapendo che solo la mattina presto se lo poteva permettere, i cinque figli cui badare non le davano tregua durante la giornata. Popo ormai aveva già nove mesi, sorrise pensando al piccolo che dormiva nella culla su, nella gelida camera, Popo lo chiamavano in famiglia, ma lui un nome l’aveva, Felice si chiamava, ma non si doveva far ingelosire nessuno, né Dio né i Santi, Popo andava bene…

Si passò il panno umido più volte sul ventre e cercò anche di specchiarsi nei vetri della finestra per vedere se il suo sospetto fosse lecito. Certo, le sue regole non le aveva più viste da tantissimo, aveva fatto la quarantina dopo la nascita del piccolo, ma finita quella suo marito era tornato nel letto e in silenzio aveva preteso quello che lei da brava moglie non poteva rifiutare.

Aveva ascoltato le vecchie del paese le quali dicevano che se allattava non c’era pericolo, ma a poco a poco il latte era sparito e lo capiva dal pianto sconsolato di Popo al quale non era rimasto che dare latte di capra e bocconcini di polenta che passava direttamente dalla sua bocca. Il vetro della finestra le rimandò l’immagine di una donna vecchia e triste, sobbalzò, come poteva essere lei quella?

Aveva solo trentacinque anni, ma quello che vedeva riflesso era la realtà.

Si vestì in fretta senza più guardare, ma un movimento dentro di lei la fermò…

C’era, la certezza ora c’era, il bambino aveva scalciato, ora non poteva più mentirsi, aspettava un altro bambino, come avrebbero fatto? Dalla stanza da letto il pianto di Popo la riportò alla realtà, salì con passo malfermo a prenderlo e gli diede la bottiglia di latte già pronto che aveva preparato, intanto la sua mente spaziava per trovare una soluzione. La soluzione più ovvia era l’Ocia, una vecchia che faceva la levatrice e che sapeva curare ogni male con le sue erbe. L’Ocia che dai bambini era chiamata la stria (la strega), forse perché nelle storie raccontate nelle stalle le streghe avevano sempre le sembianze dell’Ocia… 

Quel pomeriggio Giovanna si fece coraggio e dopo aver preso dei barattoli di marmellata di mirtilli, si avviò verso la casa dell’Ocia. Mentre camminava su per la salita, non sapeva più chi pregare, ogni suo pensiero era un grumo di paura. Giovanna bussò e quando la porta le fu aperta, non ci fu bisogno di parole, l’Ocia già sapeva, le indicò il letto sfatto e la visitò. Mani esperte sopra la sua pancia, dita sporche di erbe dentro di lei, ma delicate, domande e risposte a mezza voce e poi il verdetto.

No, non si poteva fare nulla, il bambino era troppo avanti. Non si poteva fare nulla, ma stava a lei scegliere, sì, aveva una scelta e le porse una specie di pancera da mettersi addosso, aveva ancora tre mesi per scegliere. Il Bepe, suo marito, non disse una parola riguardo a quella pancera che lei si metteva ogni giorno, la guardava e poi abbassava gli occhi, lui sapeva. LUI SAPEVA!

Il Bepe aveva iniziato a dormire sul divano in cucina, non la cercava più e lei ne era felice, ringraziava il cielo per questo, aveva già da pensare di suo nelle notti in cui stava sveglia!

Giorno dopo giorno un tormento, in casa tutto era come al solito, i bambini le davano tanto da fare e poi doveva aiutare il Bepe nei campi, ma quello che temeva di più erano le notti.

La sera toglieva quella strana pancera e la sua pancia esplodeva fuori e poi si metteva a parlare con lei, lunghi discorsi che la lasciavano stremata. Quelle notti a girarsi nel letto, ignorando quei movimenti dentro di lei, quello scalciare, come a chiedere pietà, chiedere di nascere, di essere amato.

Essere amato?

Ma scherzi figlio mio?

Siamo già in sette e nessuno è amato, la miseria non genera amore, poi tu non esisti, quasi quasi non esiste Popo, che domande mi fai? Quelle notti colme di dolore per sé stessa per i suoi sogni mai sognati, perché aveva sempre avuto paura anche di sognare lei, paura di sognare le strie, quelle libere che non hanno paura di nessuno, quanto avrebbe voluto essere come una di loro.

L’inverno lasciò il posto a una primavera piovosa, si doveva pulire i prati dal letame sparso in autunno, una fatica immane, ma lei lo faceva con rabbia, non ascoltava il dolore della sua schiena, continuava a rastrellare e a caricarsi le gerle pesanti sulle spalle arrancando fino alla stalla poi anche se esausta ricominciava, aveva fretta in tutto. Aveva fretta di liberarsi anche se ancora non aveva preso nessuna decisione, aspettava. 

Aspettava il momento, sapeva che sarebbe arrivato e … arrivò.

Quella notte il mal di schiena non le diede tregua, alla mattina capì che il momento era arrivato, disse al Bepe che sarebbe andata lei a governare le mucche al bait, lui cercò di protestare ma lei lo fulminò con lo sguardo, il Bepe ammutolì a disagio di quella sua nuova risolutezza. Arrivare su al bait non fu facile, a tratti doveva fermarsi perché il dolore le toglieva il respiro, alla fine arrivò nello spiazzo dell’aia e si sdraiò sulla nuda terra.  Le contrazioni arrivavano a ondate sempre più forti, lei ne era terrorizzata, ma ripensando ai suoi cinque parti sapeva quello che doveva fare e si impose una calma che non era facile trovare. Poi iniziarono le spinte e fu tutta un sudore, si mise in bocca un pezzo di legno trovato lì a terra per non urlare anche se sapeva che nessuno l’avrebbe sentita.

In un attimo il bimbo fu fuori, uscì da lei tutto bagnato del suo sangue e cadde sulla terra con un piccolo tonfo, Giovanna si accorse che era una femmina e ne gioì, per un attimo si sentì sollevata, era solo una femmina alla fine. La sua mano andò alla piccola testolina bagnata e la girò verso la terra, dolcemente la spinse con delicatezza giù, verso il nulla. Il piccolo corpicino era ancora legato a lei dal cordone ombelicale e la placenta era ancora dentro di lei, erano ancora insieme… per poco, ma lei sentiva il dolore della piccola che non sapeva neppure lottare per vivere. Poi anche la placenta uscì, Giovanna la prese e senza guardare la piccola iniziò ad avvolgerla, prima con il cordone ombelicale poi con tutta la massa della placenta, si tolse dal capo il fazzolettone e senza guardare vi depose la figlia.

Ecco, tutto era fatto e la decisione presa!

Era stato facile si disse, dopo tutto era solo una femmina, si pulì alla meglio, si tamponò con gli stracci che aveva preso da casa e si avviò con il suo fardello verso il bosco. Ogni donna del paese conosceva il bus de l’Angel, c’erano sempre fiori attorno a quel buco di rocce dove se ti mettevi in ginocchio e accostavi l’orecchio sentivi il rumore dell’acqua giù, molto giù in fondo.

Giovanna arrivò al buco e sul fagotto fece in fretta un segno di croce, poi lo lasciò cadere, per la prima volta sentì una tenerezza per quella bimba che cadeva lungo le rocce fino a perdersi in meandri sconosciuti e pianse. Piangeva per la sua bimba, piangeva per lei stessa, piangeva per tutte le donne che avevano preso quella decisione orribile e sapeva che in quel buco c’erano tanti angeli buttati via come se fossero stati sporchi e non degni di vivere. A fatica si alzò e andò in cerca di fiori, era fine aprile e la primavera esplodeva in mille colori. Trovò delle genzianelle, ne prese a manciate e tornò al buco degli angeli, iniziò a buttare le campanelle. Le buttava una a una e ogni campanella che cadeva era accompagnata dalla richiesta di perdono. Perdono per lei, perdono per la miseria che c’era, perdono per la vita che le aveva impedito di vivere. Alla fine tornò a casa, il Bepe la guardò e intuì un qualcosa che lo rese muto, non disse nulla, solo delle lacrime silenziose finirono in una barba mal curata.

La sola persona che fu felice fu il Popo, per lui le mammelle di sua madre tornavano a essere colme di latte.


MADDALENA BAZZANI è nata in Valsaviore, dove ha ambientato il suo racconto. Attualmente pensionata, ama da sempre scrivere: per i suoi figli ha inventato mille storie e continua ancora per puro diletto. Scrivere è per lei una medicina che la aiuta a vivere e a buttare fuori quello che sente dentro. Ha un blog, un piccolo diario dove “incolla” questi racconti come briciole che sparge lungo la sua vita.


Puoi trovare questo e altri 19 racconti scelti nell’antologia “Brescia si racconta”, a cura di Brescia si legge, edita da GAM Edizioni (2025). Richiedila nella tua libreria di fiducia (ISBN: 9791281717374) o acquistala online sul sito dell’editore.

Venti racconti potenti e sorprendenti, selezionati tra i quasi duecento iscritti alla prima edizione del concorso “Brescia si racconta”, per altrettanti punti di vista inediti sulla nostra provincia. Tra confessioni intime che aprono squarci imprevisti e sguardi nuovi sui grandi traumi collettivi, tra visioni oniriche e frammenti di vite che oscillano tra la cronaca e la leggenda, venti storie a chilometro zero, vive e ruspanti, che usano il potere della letteratura per andare oltre gli stereotipi e per raccontare senza troppe sovrastrutture la nostra provincia e la comunità che la abita.

Racconti di (ordine alfabetico): Fabio Ballini, Maddalena Bazzani, Marta Bonisoli, Sveva Castrocaro, Maria Cerutti, Manuela Corsino, Ombretta Costanzo, Domenico Di Natale, Silvia Faini, Emanuele Galesi, Matteo Gilberti, Roberto Gregorio, Alessia Maghella, Daniela Martinotti, Stefano Morzenti, Stefano Novara, Michele Piccardi, Marcello Rizza, Giovanni Francesco Scalvini, Sara Tomasoni.

A cura di Brescia si legge Aps, progetto collettivo e aperto di promozione culturale dedicato ai libri che raccontano Brescia e la sua provincia e piattaforma al servizio della scena letteraria locale.

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