“Il partigiano Móha”: l’ardita giovinezza dell’esinese Bortolo Bigatti rivive nel romanzo di Alberto Panighetti

Recensione di Francesca Scotti per Brescia si legge

«Morire così, a nemmeno vent’anni, ammazzato con un colpo in un occhio…»

«Eliminato come un animale, proprio lui che era così umano e coraggioso…»

«È stato un eroe! Ha preferito farsi uccidere, per non rischiare di compromettere la vita dei suoi compagni e di altri.»

[…]

Bisbigli, frammisti a commozione e ammirazione, erano i sentimenti che si scambiavano in tanti, facendo attenzione a non farsi sentire, non solo per il rispetto al morto, ma per legittima prudenza, perché sapevano che il loro paese, Esine o Eden nella parlata locale, brulicava di spie.

Alberto Panighetti, “Il partigiano Móha”, p. 19

Il 6 febbraio 1945, a Esine, comune bresciano della Valcamonica, viene ucciso a soli diciannove anni il resistente delle Fiamme Verdi Bortolo Bigatti, nome di battaglia Móha. A sparargli un colpo di pistola in un occhio è stato Werner Maraun, maresciallo tedesco della Wehrmacht a capo delle retate anti-partigiane nella bassa e media valle. Non un’esecuzione come tante altre, bensì una vendetta in piena regola: tutti quanti compongono il grande e commosso corteo funebre dell’assassinato non hanno dubbi al riguardo. Ma chi è stato Móha? Come ha vissuto la sua breve ma intensa esistenza, quali speranze ha accarezzato e difeso e in che modo ha scelto di unirsi, nel ’43, alla resistenza?

“Il partigiano Móha”, romanzo storico dell’autore bresciano Alberto Panighetti, ricostruisce la vita dell’esinese Bortolo Bigatti dall’infanzia negli anni trenta fino alla tragica morte, in costante equilibrio tra realtà fattuale e invenzione letteraria (LiberEdizioni, 2022 – acquista qui). Vicende private si annodano alla descrizione di costumi locali e al preciso resoconto di eventi cardine della resistenza camuna, facendo emergere un testo che, tributando la giusta memoria a una singola figura storica, costituisce al contempo un’opera corale in cui la Valcamonica, col suo importante contributo alla lotta di liberazione dal nazifascismo, è a sua volta in tutto per tutto protagonista.

Un’appassionante vicenda umana e un ritratto della società camuna negli anni trenta e quaranta

Con un ampio flashback che dai funerali di Móha in apertura al romanzo ci riporta nel 1930, l’autore ci fa entrare nella vita di Bortolo Bigatti, a pieno contatto coi i suoi sogni, coi suoi affetti e con le esperienze che modellano il suo carattere.

Quella in cui cresce Bortolo è una famiglia di Esine povera e numerosa, che vive di quanto produce la piccola cascina, oltre che dell’impiego come muratore del padre. La madre Giacomina muore a soli quarantun anni e Bortolo è costretto a lasciare la scuola dopo la terza elementare per prestare aiuto nell’allevamento delle vacche. Da bambino vivace e solare, diventa un ragazzo serio e volenteroso, alle prese con i primi sentimenti amorosi, ma anche con le preoccupazioni suscitate dalla dittatura e dalla guerra. Al proprio fianco ha don Alessandro Sina, parroco di Esine e suo padre spirituale, oltre che due amici per la vita, Vittorino Ragazzi e Vitale (Tani) Bonettini, i quali nutrono per lui un affetto profondo e sincero in grado di valicare le divergenze sociali.

La prosa di Panighetti scorre fluida e ancorata a una solida ricostruzione storica. A emergere non è però unicamente la vicenda di Bortolo, per quanto emblematica e coinvolgente. Mentre ricostruisce attentamente il quadro sociale in cui il protagonista cresce e si forma, infatti, l’autore conferisce risalto alla pluralità di usi e di costumi nella Valcamonica degli anni trenta e quaranta, dalla tradizione fortemente sentita dei doni portati in nome di santa Lucia al presepe allestito alla vigilia con il muschio appena raccolto, dalla cottura dei semplici e gustosi dolci chiamati spongade alla pratica della macellazione del maiale in uso nelle cascine, dalle attività di bambini e ragazzi all’oratorio al taglio della legna e alla raccolta dei funghi. Ciò che si delinea è quindi anche un quadro preciso, interessante e ricco di particolarità sul contesto sociale e antropologico di Esine e, per estensione, della Valcamonica, nel periodo compreso fra il 1930 e il 1945.

Un romanzo in cui riecheggia la polifonia di voci della resistenza in Valcamonica

Alla sacra memoria

dei cari e indimenticabili figliuoli

che

nella lotta di liberazione

nella cattività

sui campi di battaglia o altrove

hanno dato la vita per una patria migliore.

Don Alessandro Sina, dedica tratta dal libro “Esine” (1946) e riportata in apertura de “Il partigiano Móha” di Alberto Panighetti

Dopo i cruciali fatti dell’8 settembre 1943, assumendo il nome di Móha, Bortolo si unisce a quella che in seguito diventerà la brigata Tito Speri delle Fiamme Verdi. I sentieri da lui calcati incrociano così i sentieri di tutti quegli uomini, di tutti quei giovani e di tutte quelle staffette che hanno dato impulso, sangue e anima alla resistenza al nazifascismo in Valcamonica. Il privato si intreccia alla grande storia, all’interno di una narrazione che mette in luce le azioni, le sofferenze, le vittorie e la tragica morte di tante persone realmente esistite e il cui nome è scolpito nella memoria della resistenza bresciana. Fra i numerosi abitanti di Esine che affollano il racconto, troviamo anche la famiglia dello stesso Panighetti, che davvero ha prestato soccorso a un partigiano rimasto ferito durante un’azione in cui si è distinto Móha.

Móha non si tira mai indietro, è spesso in prima linea e porta a termine ardite imprese dalle quali non esce sempre illeso. Sospinto dall’amore per la propria terra e da un puro ideale di giustizia e di libertà, resta al suo posto fra i resistenti. Potrebbe andare a nascondersi da qualche parte insieme alla fidanzata Dina, oppure rispondere ai bandi della repubblica sociale sperando di essere assegnato a qualche posto di retroguardia nell’attesa che la guerra finisca il prima possibile. Invece no, mette i suoi giovani anni al servizio di una causa tanto nobile quanto portatrice di sventure. È un atto, il suo, di grande e semplice umanità, limpido e concreto come la gente di montagna.

Sono proprio il suo valore e il suo contributo ad alcuni importanti e vittoriosi colpi di mano ad attirare l’ira della “belva” Werner Maraun. Il nazista finisce infatti col vedere in lui il diretto responsabile di una sua mancata promozione, oltre che un forte ostacolo alla sua opera di repressione della lotta partigiana in Valcamonica. Cerca quindi con ogni mezzo di scovarlo, non solo perché è un valido e temuto resistente, ma anche e soprattutto per soddisfare la sua personale sete di vendetta.

Sappiamo già come andrà a finire, eppure ogni pagina ci tiene incollati con il fiato sospeso, in un crescendo di drammaticità. Panighetti conduce saldamente la narrazione e passo passo ci accompagna alle ultime pagine, dove dipinge con vividi tratti il contrappasso a cui è realmente andato incontro Maraun, morto a seguito di un linciaggio da parte della popolazione di Esine il 28 aprile 1945. Ma questo è un libro in cui, ancor più che la crudezza e la tragicità delle vicende narrate, sulla cui sostanza storica l’autore invita a riflettere, emergono l’umanità e la lucentezza del giovane protagonista, così come di tutti coloro che si sono battuti e che hanno resistito con lui.


Titolo: Il partigiano Móha
Autore: Alberto Panighetti
Editore: LiberEdizioni, 2022

Genere: Romanzo storico
Pagine: 376
ISBN: 9791280148667

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Francesca Scotti

Classe 1991. Cresciuta in Franciacorta, vive a Brescia, sua città natale. Ha studiato letteratura inglese e tedesca, laureandosi con una tesi sui rapporti fra la cultura tedesca e il nazionalsocialismo. Legge e scrive per vivere. È autrice della silloge di racconti “La memoria della cenere” (Morellini, 2016) e dei romanzi “Figli della Lupa” (Edikit, 2018), “Vento porpora” (Edikit, 2020) e "La fedeltà dell'edera" (Edikit, 2022). Anima rock alla perenne ricerca di storie della resistenza bresciana, si trova maggiormente a suo agio tra le parole dei libri e sui sentieri di montagna.

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